Virginia, Tienimi Per Mano

Ludovica
5 min readOct 10, 2021

L’estate duemila-ventuno potrei soprannominarla “la mia estate con Virginia”.

Per circa tre mesi ho vissuto in una sottospecie di limbo leggendo e rileggendo alcune delle opere più grandiose mai scritte: Una stanza tutta per sé, Le onde e Al faro, precisamente in questo esatto ordine.

Ho iniziato con il saggio femminista perché volevo capire se ci saremmo incontrate e dove mi avrebbe portata. Conoscendola di fama e di sventura per come si studia a scuola, intuivo che sarebbe stato qualcosa di grandiosamente travolgente. Forse in cuor mio sapevo che una volta imbarcata non sarei mai più scesa, e nulla sarebbe tornato all’ordine antecedente. La curiosità premeva forte ma era mista a un timore reverenziale che mi manteneva a distanza, leggermente disincantata; come se non fossi pronta, come se non avessi in me gli strumenti per decifrare la più grande anima della letteratura contemporanea.

Quando infine il passo l’ho compiuto, mi sono avviata su un sentiero senza ritorno di un’intensità così dirompente che non credevo fosse possibile incontrare attraverso i libri.

Spesso i periodi sono ingarbugliati, è facile che si perda il filo e bisogna leggerli più volte; le parole sono così sature di un’ironia pungente che può sembrare una presa in giro. Nel mezzo della lettura viene spontaneo arrestarsi chiedendosi come sia possibile che una persona riesca a mantenere il passo con il ritmo furioso dei pensieri. La mente correndo salta da un pensiero all’altro e contemporaneamente il corpo compie stupidissimi gesti quotidiani.

Giri il caffè, accendi la sigaretta, apri la finestra, raccogli le molliche di pane sul tavolo.

Sciocchezze, pure e semplici sciocchezze.

Il percorso è tortuoso, la penna di Virginia, alter-ego dell’anima, indaga, scava, va a fondo. Finché quasi non si smarrisce, continua a cercare. Le immagini, quando infine vengono a galla, lo fanno con una facilità disarmante, impossibile da immaginare. Sono sovrapposte.

They overlap, Virginia direbbe.

Trasportano un messaggio limpido e preciso, sempre. L’origine è nei dettagli, soprattutto quelli più semplici che quasi sembrano insignificanti.

Non sappiamo né tu né io come possa un ricordo imprimersi nella mente; se si forma all’improvviso o lentamente, come una fotografia che si compone sulla carta immersa nell’acido al buio della camera oscura. Non esiste alcuna risposta definitiva. Possiamo solamente valutare l’impatto dello scontro con la memoria. Le dimensioni del buco creato dalla consapevolezza dell’esistenza di un ricordo possono variare da quelle di un cratere fino a quelle di una puntura d’ago. Il tempo necessario a rimarginare la ferita e ad asciugare il dolore è estremamente variabile; per quanto possa cicatrizzarsi bene, rimane lo spiraglio dell’eventualità di avere strascichi per lungo tempo.

La memoria involontaria proustiana, secondo la quale sono delle piccolezze come un odore, un rumore o un sapore indipendenti dalle nostre persone a (ri)portare in superficie i ricordi, è una bomba ad orologeria. Impossibile che qualcuno sappia quando scoppia. È possibile, invece, riconoscere i meccanismi che portano all’innesco, senza prevedere l’effetto dell’esplosione.

In questo processo il corpo non rimane un’entità svincolata dalla mente. Non è esclusivamente mezzo di propagazione di desiderio, bramosia; è lo strumento con cui l’anima comunica. Si allunga, si rattrappisce, si raffredda e si riscalda. Comunica fastidio, accoglienza, soddisfazione, sconforto, piacere. Bisogna ascoltarlo.

Esistono dei fili sottili tra conoscenza e intimità, tra buio e luce, tra consapevolezza e incoscienza di sé, ed è praticamente impensabile rimanerci in equilibrio cercando di decifrare fino a che punto è possibile avere contezza dell’insieme di pezzettini che formano l’anima.

Noi alla buona potremmo dire che Virginia ci si è applicata moltissimo; con impegno e dedizione ha passato meticolosamente al setaccio ogni momento attraversato dalla sua anima sensibile e cagionevole. Specialmente i momenti di buio totale, quelli in cui rimaneva a letto con le imposte serrate e passava le ore sognando o trascrivendo le immagini che le erano apparse.

Se già è impossibile arrivare alla piena coscienza di sé, tra le pagine di Al Faro, Virginia si domanda frequentemente tra sé e sé con lunghi monologhi interiori oppure per bocca di Lily e della Signora Ramsay, quali lati della nostra persona sia possibile donare agli altri, e di conseguenza fino a che punto si possano attraversare le reciproche barriere per raggiungere l’intimità della mutua conoscenza.

In sostanza, le domande che le martellano la testa per decenni sono: come posso conoscere gli altri se a malapena so chi io sia? Quali pezzi della mia anima sono accessibili a me e quali agli altri? Scambiarsi impressioni vale come conoscersi?

Che ruolo hanno le emozioni in questo universo?

“I get an infinity of pleasure from the intensity of my own emotions” scrive Virginia all’amica Ethel Smyth nel Gennaio del 1932. Questa frase così netta, tagliente e risolutoria che quasi sembra un’intimidazione a non avvicinarsi, è stata la colonna sonora della mia estate. Tutt’ora riecheggia nella mia mente e risale in un baleno quando mi confronto con l’universo delle relazioni. Mi capita di sentirmi in ordine, consapevole che le proprie emozioni siano abbastanza per affrontare il mondo; ma capita ancor più di frequente di sentirsi una metà sparsa in giro. Ho cercato di capire se quello di Virginia fosse un gentile invito al “bastarsi da soli” oppure all’introspezione – che di fatto è un processo appagante – o addirittura un elogio della solitudine dell’anima.

Chiaramente non ho una risposta.

Ci sono giorni in cui in maniera nitidissima appare nella mia mente cosa sto facendo, dove mi trovo e soprattutto in quale direzione mi sto dirigendo. Mi sento così brillantemente e perfettamente definita che potrei descrivere ogni pensiero e accompagnare chiunque tra i sentieri del mio cervello, giacché ogni cosa è una linea dritta, tutto è perfettamente organizzato e io salto felicemente da un pensiero all’altro con una grazia di ballerina che non appartiene a questo mondo. Mi sento così leggera che se facessi un balzo enorme potrei prendere il volo a mo’ di mongolfiera.

Come all’incirca ogni essere vivente, anche io avanzo in una serie di sensazioni cicliche, e questa positività prima o poi ha sempre un termine. Capita che me ne accorga, così come capita che accada all’improvviso, brutalmente; il mio corpo si scuote impercettibilmente e la mia leggerezza crolla a terra miserabilmente, mentre io la guardo inerme, sconfortata e parecchio incredula. Forse le labbra compongono una smorfia sottile, quasi un sorriso sarcastico. Dopodiché viene meno la mia capacità di mettere a fuoco, e qualsiasi cosa capiti davanti ai miei occhi appare sfocata, lontana, irraggiungibile. Io sento di non fare parte di questo universo e che assolutamente nulla tra gli oggetti e le persone che sono nella mia orbita possano realmente raggiungermi. In questo miscuglio ingarbugliato di sensazioni, lentamente arriva il buio; non mi resta che socchiudere gli occhi, sospirando.

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Ludovica

i wouldn’t say i’m a writer but i do write